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La PAS torna a far discutere nel tutelare il figlio alla bigenitorialità

Interessante pronuncia della Corte di Cassazione che pur non entrando nel merito scientifico della cosiddetta Sindrome di Alienazione Parentale ne delinea i confini fino a ricomprenderne il concetto di idoneità  genitoriale.
La Corte di cassazione, evidenzia come la sentenza della Cedu 9 gennaio 2013, n. 25704, L. c. Rep. Italiana, abbia affermato la violazione dell’art. 8 della convenzione da parte dello Stato italiano, in un caso in cui le autorità giudiziarie, a fronte degli ostacoli opposti dalla madre affidataria, ma anche dalla stessa figlia minorenne, a che il padre esercitasse effettivamente e con continuità il diritto di visita, non si erano impegnate a mettere in atto tutte le misure necessarie a mantenere il legame familiare tra padre e figlia minore, attraverso un concreto ed effettivo esercizio del diritto di visita nel contesto di una separazione legale tra i genitori.

Corte di Cassazione, sez. I Civile

sentenza 16 febbraio – 8 aprile 2016, n. 6919

Presidente Di Palma – Relatore Lamorgese

Svolgimento del processo

La causa ha ad oggetto le modalità di affidamento e mantenimento di (…) , figlia minorenne (nata nel ***) di (…). e (…). , dopo l’interruzione della convivenza dei genitori nel (…), quando la (…) lasciò la residenza comune portando con sé la figlia. Il Tribunale per i minori di Milano, con decreto del (….), dispose l’affidamento condiviso della minore ad entrambi i genitori, collocata presso la madre, con incarico ai Servizi sociali di monitorare la situazione; con successivo decreto del (….), tenuto conto dell’atteggiamento della figlia di rifiuto del padre, vietò a quest’ultimo di frequentarla, prescrisse alla ragazza un percorso psicoterapeutico (rimettendone la definizione in concreto alla madre), finalizzato a fare riprendere i rapporti con il padre e a consentire ad entrambi i genitori di rivolgersi ai servizi psico-sociali per un sostegno allo svolgimento dei compiti genitoriali; con decreto (….), rispondendo negativamente alle istanze con le quali l’ (…) aveva dedotto l’esistenza di una “sindrome di alienazione genitoriale” (PAS) determinata dalla campagna di denigrazione posta in essere dalla (…) nei suoi confronti, il Tribunale ha confermato il precedente decreto, dando conto del disagio manifestato dalla ragazza nei confronti del padre, a causa di taluni comportamenti percepiti come invasivi della propria sfera individuale intima, e ha respinto le istanze del padre di nuovi accertamenti peritali.
Avverso questo decreto l’ (…) ha proposto reclamo, invocando nuove indagini peritali che facessero luce sulle ragioni dell’ostilità manifestata dalla figlia nei suoi confronti e favorissero la ripresa dei rapporti padre-figlia; la (…) ha chiesto l’attribuzione di un contributo per il mantenimento della ragazza e il pagamento delle spese straordinarie.
La Corte d’appello di Milano, Sez. Minorenni, con decreto del (….), ha confermato l’affido condiviso della figlia ai due genitori, fissando la residenza presso la madre; con riguardo al contributo di mantenimento, a carico dell’ (…) , lo ha determinato in Euro 800,00 mensili, rivalutabili, oltre alla metà delle spese straordinarie e di quelle concordate e documentate; ha confermato nel resto il decreto impugnato; ha compensato le spese del secondo grado per la metà, ponendole nel resto a carico di (…) . Quest’ultimo ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui si è opposta la (…) , la quale ha presentato un ricorso incidentale affidato a un motivo.

Motivi della decisione

Con il primo motivo del ricorso principale l’ (…) ha denunciato violazione e falsa applicazione dell’art. 155 c.c. (sostituito dall’art. 337 ter c.c.), nonché vizio di motivazione per omesso esame di fatti decisivi concernenti la condotta della (…) rispetto al suo rapporto con la figlia. In particolare, egli ha dedotto la violazione del principio della bigenitorialità, cioè del diritto del bambino di avere un rapporto equilibrato ed armonioso con entrambi i genitori e, quindi, anche con il padre, ai fini dell’esercizio condiviso della responsabilità genitoriale. La Corte milanese avrebbe omesso del tutto di considerare che la (…) aveva ostacolato in ogni modo il suo rapporto con la ragazza e non era mai intervenuta efficacemente quando manifestava atteggiamenti ostili verso il padre; che gli incontri con la figlia erano molto rari e solo alla presenza di una baby sitter o di un’educatrice dei servizi sociali; che l’attuale convivenza della ragazza con la madre costituiva un insuperabile impedimento al suo riavvicinamento alla ragazza; che questa situazione determinava la lesione del diritto alla vita familiare tutelata dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 8); che era stato omesso l’espletamento di indagini specifiche volte ad individuare l’esistenza di una PAS (Parental Alienation Syndrome), ciò rivelando una ingiustificata posizione ideologica e negazionista che, in definitiva, aveva l’effetto di precludere la tutela dei suoi diritti di padre e dei diritti della figlia; che le accuse rivolte dalla (…) nei suoi confronti, di comportamenti inadeguati verso la figlia, erano totalmente infondate e mai provate, nemmeno a livello indiziario. I giudici di merito non avrebbero indagato sulle cause del rifiuto manifestato dalla figlia, né attuato misure specifiche e dirette a ristabilire i contatti con il padre; gli interventi anche terapeutici posti in essere erano gravemente inadeguati e dannosi per lo stato psicofisico della minore.

Il motivo in esame, contrariamente a quanto eccepito dalla controricorrente, è ammissibile, essendo impugnato ex art. 111 Cost. un provvedimento, avente i caratteri della decisorietà e definitività, che non verte in tema di limitazione della potestà genitoriale (inizialmente limitata e poi reintegrata in capo ai genitori con successivo decreto 18 novembre 2008), ma sulle modalità dell’affidamento di un figlio minore di genitori separati (v. Cass. n. 7041/2013). Nella giurisprudenza di questa Corte si è affermato il principio secondo cui il decreto della Corte d’appello, contenente i provvedimenti in tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio e le disposizioni relative al loro mantenimento, è ricorribile per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., poiché già nel vigore della legge 8 febbraio 2006, n. 54 – che tendeva ad assimilare la posizione dei figli di genitori non coniugati a quella dei figli nati nel matrimonio – ed a maggior ragione dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 – che ha abolito ogni distinzione – al predetto decreto vanno riconosciuti i requisiti della decisorietà, poiché risolve contrapposte pretese di diritto soggettivo, e di definitività, avendo un’efficacia assimilabile rebus sic stantibus a quella del giudicato (v. Cass. n. 6132/2015, n. 11218/2013).

Il motivo è fondato nei seguenti termini.

L’impugnata decisione ha confermato il regime di affidamento condiviso con il contestato collocamento della figlia minore presso la madre, sulla base delle seguenti proposizioni: ” (…) è una ragazzina a rischio evolutivo, nel senso che il suo rifiuto del padre può precluderle relazioni mature e soddisfacenti e che lo stesso rapporto con la madre è contraddistinto da ambivalenza e aggressività”; il c.t.u. si era dichiarato contrario alla possibilità di incontri con il padre a breve, poiché si era verificato che la ragazza aveva avuto una crisi di panico alcuni giorni prima di uno di questi incontri; l’eziopatogenesi del suo atteggiamento era da rinvenire “nella relazione non particolarmente coinvolgente… (…) – definita (dal c.t.u.) turistica – della coppia”, il che farebbe “implicitamente” escludere la configurabilità della sindrome di alienazione genitoriale (PAS) imputata dal ricorrente alla (…) ; la Corte ha sospeso la terapia psicologica praticata dalla ragazza, secondo l’indicazione del c.t.u. che ne aveva contraddittoriamente evidenziato il bisogno “tassativo” e l’aveva consigliata anche ai genitori.

È una motivazione non solo insufficiente, ma perplessa o apparente, quindi censurabile anche alla luce del nuovo testo dell’art. 360, n. 5 c.p.c., modificato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, come interpretato dalle Sezioni Unite (v. sent. n. 8053 e 8054/2014).
La Corte d’appello ha disposto l’interruzione della frequentazione del padre con la figlia in ragione della indisponibilità o avversione manifestata nei suoi confronti dalla ragazza, senza una approfondita indagine sulle reali cause del suo atteggiamento e seguendo l’indicazione finale del c.t.u., sebbene questi avesse evidenziato anche i rischi che la distanza dalla figura paterna potesse nel tempo arrecare alla ragazza e, soprattutto, le analoghe criticità dei rapporti della ragazza con la madre, caratterizzati da “ambivalenza e aggressività”, e tra gli stessi genitori. La decisione di escludere, in sostanza, il padre dalla vita della figlia appare come il risultato di una acritica adesione alle conclusioni finali del c.t.u., piuttosto che essere determinata da suoi non precisati comportamenti riprovevoli (cui la stessa Corte mostra di non attribuire rilievo, non soffermandosi su di essi e sulle relative fonti di prova, tenuto conto delle specifiche contestazioni mosse al riguardo dal ricorrente), con l’effetto di trascurare le specifiche censure avanzate e trascritte nel ricorso per cassazione (è noto che il giudice può aderire alle conclusioni del c.t.u., senza essere tenuto a una specifica motivazione, salvo che non formino oggetto di specifiche censure, v. Cass. n. 1149/2011).
In particolare, il c.t.u. nominato in primo grado aveva rilevato che “la madre limita di fatto la relazione tra padre e figlia attraverso un controllo continuo su ogni atto direttamente o tramite persone di sua fiducia.
L’atteggiamento (…) trova una ragione nella particolare caratteristica di personalità strutturata secondo schemi rigidi”; lo stesso Tribunale, nel decreto del 28 marzo 2007, aveva dato atto che “la madre sta arrecando gravi e irreparabili danni alla minore, inducendole paure e sospetti nei confronti della figura paterna” e le aveva prescritto “di non ostacolare i rapporti tra la minore e il padre, dovendosi in caso contrario valutare un diverso collocamento della minore”. Inoltre, il rilievo critico evidenziato dal ricorrente, di avere rimesso alla (…)  la definizione in concreto del percorso terapeutico della minore, ha trovato parziale conferma nella stessa decisione Impugnata, la quale ha richiamato il giudizio definito “sarcastico” del c.t.u. nei confronti della terapeuta scelta dalla (…).

Questa Corte ha avuto occasione di osservare che, in tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione, va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione (v. Cass. n. 18817/2015).
Non può esservi dubbio che tra i requisiti di idoneità genitoriale, ai fini dell’affidamento o anche del collocamento di un figlio minore presso uno dei genitori, rilevi la capacità di questi di riconoscere le esigenze affettive del figlio, che si individuano anche nella capacità di preservargli la continuità delle relazioni parentali attraverso il mantenimento della trama familiare, al di là di egoistiche considerazioni di rivalsa sull’altro genitore.

Non compete a questa Corte dare giudizi sulla validità o invalidità delle teorie scientifiche e, nella specie, della controversa PAS, ma è certo che i giudici di merito non hanno motivato sulle ragioni del rifiuto del padre da parte della figlia e sono venuti meno all’obbligo di verificare, in concreto, l’esistenza dei denunciati comportamenti volti all’allontanamento fisico e morale del figlio minore dall’altro genitore. Il giudice di merito, a tal fine, può utilizzare i comuni mezzi di prova tipici e specifici della materia (incluso l’ascolto del minore) e anche le presunzioni (desumendo eventualmente elementi anche dalla presenza, laddove esistente, di un legame simbiotico e patologico tra il figlio e uno dei genitori). Tali comportamenti, qualora accertati, pregiudicherebbero il diritto del figlio alla bigenitorialità e, soprattutto, alla sua crescita equilibrata e serena.
L’importanza di tale diritto è testimoniata dalla sentenza della Cedu 9 gennaio 2013, n. 25704, L. c. Rep. Italiana, che ha affermato la violazione dell’art. 8 della convenzione da parte dello Stato italiano, in un caso in cui le autorità giudiziarie, a fronte degli ostacoli opposti dalla madre affidataria, ma anche dalla stessa figlia minorenne, a che il padre esercitasse effettivamente e con continuità il diritto di visita, non si erano impegnate a mettere in atto tutte le misure necessarie a mantenere il legame familiare tra padre e figlia minore, attraverso un concreto ed effettivo esercizio del diritto di visita nel contesto di una separazione legale tra i genitori. In particolare, quelle autorità si erano limitate reiteratamente e con formule stereotipate a confermare i propri provvedimenti, nonché a prescrivere l’intervento dei servizi sociali, cui erano richieste di volta in volta informazioni e delegata una generica funzione di controllo, così determinandosi il consolidamento di una situazione di fatto pregiudizievole per il padre, mentre avrebbero dovuto rapidamente adottare misure specifiche per il ripristino della collaborazione tra i genitori e dei rapporti tra il padre e la figlia, anche avvalendosi della mediazione dei servizi sociali. In caso di separazione personale conflittuale tra coniugi, l’affidamento del figlio minorenne implica un diritto effettivo e concreto di visita del genitore presso il quale il minore non sia collocato.

L’assenza di collaborazione tra i genitori in conflitto e, talora, l’atteggiamento ostile (da dimostrare nel caso concreto) del genitore collocatario nei confronti dell’altro genitore) che impedisca di fatto al minore di frequentarlo, comporta una grave violazione del diritto del figlio al rispetto della vita familiare e non dispensa le autorità nazionali dall’obbligo di ricercare ogni mezzo efficace al fine di garantire il diritto del minore di frequentare adeguatamente e tempestivamente entrambi i genitori.
Si deve enunciare il seguente principio: in tema di affidamento di figli minori, qualora un genitore denunci comportamenti dell’altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una PAS (sindrome di alienazione parentale), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente/a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena.

In conclusione, in accoglimento del primo motivo, la sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte territoriale, in diversa composizione, per un nuovo esame. Gli altri motivi del ricorso principale e incidentale, sulla quantificazione dell’assegno e sul governo delle spese, sono assorbiti.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale, assorbiti gli altri motivi e il ricorso incidentale; in relazione al motivo accolto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Milano, Sez. Minorenni, in diversa composizione, anche per le spese.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.




Sentenze

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Sì allo stato di adottabilità quando manca un contesto familiare stabile

La sentenza in esame, afferma la necessità di contemperare il principio secondo cui il minore ha diritto di rimanere nella propria famiglia di origine, con conseguente ricorso allo stato di adottabilità come soluzione estrema, quando ogni altro rimedio appare ormai inadeguato, con l’esigenza dell’acquisto o di un recupero della capacità genitoriale in tempi compatibili con l’esigenza del minore di uno stabile contesto familiare

Suprema Corte di Cassazione sezione I

sentenza 20 gennaio 2015, n. 881

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente

Dott. BENINI Stefano – Consigliere

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS)

 

avverso la sentenza della Corte di appello di Torino, n. 119, depositata in data 2 luglio 2013;

sentita la relazione svolta all’udienza pubblica del 10 luglio 2014 dal consigliere Dott. Pietro Campanile;

Udite le richieste del Procuratore Generale, in persona del sostituto Dott. Giuseppe Corasaniti, che ha concluso per l’inammissibilità o in subordine, per il rigetto dei ricorsi.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – Con sentenza depositata in data 27 agosto 2012 il Tribunale per i Minorenni di Torino dichiarava lo stato di adottabilità del minore (OMISSIS), nato il (OMISSIS).

1.1 – La Corte di appello di Torino, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato detta decisione, impugnata da entrambi i genitori, (OMISSIS) e (OMISSIS), nonché dai nonni paterni, (OMISSIS) e (OMISSIS).

La corte territoriale, a fronte di un giudizio di totale inadeguatezza di entrambi i genitori, che non risultava contestato, avendo costoro con il proprio gravame richiesto l’affido temporaneo ai nonni paterni, ha rilevato che i tempi richiesti per il riavvicinamento della madre al nucleo paterno, con il quale vi erano stati forti contrasti, erano incompatibili, al di la’ dell’esito incerto, con le esigenze del minore; che lo stato di adottabilità era stato dichiarato all’esito di una serie di sperimentazioni, con l’adozione di strumenti di sostegno psicologico, conclusesi negativamente; che la CTU aveva espresso una valutazione negativa circa un affidamento del bambino ai nonni paterni, i quali, ancorché dichiaratisi al riguardo disponibili, apparivano incapaci di instaurare un rapporto proficuo con il nipote, sia per le intrinseche limitazioni culturali e caratteriali, sia per la conflittualità con i genitori, soprattutto con la madre, sia per la loro assoluta mancanza di rispetto nei confronti delle regole indicate dagli operatori.

1.2 – E’ stato altresì osservato che su alcuni segnali di ripresa dei rapporti fra la madre e i nonni paterni, che di certo non lasciavano presagire un processo di breve durata, facevano premio, ai fini della conferma dello stato di adottabilità, le gravi carenze riscontrate sul piano personale sia in capo ai nonni stessi, sia nella valutazione dell’intero contesto familiare, assolutamente contrastante con l’esigenza di cure materiali, calore affettivo e aiuto psicologico di cui necessita il minore ai fini di un corretto sviluppo psicofisico.

1.3 – Per la cassazione di tale decisione hanno proposto ricorso i signori (OMISSIS) e (OMISSIS), deducendo tre motivi, cui resiste con controricorso la curatrice speciale del minore, nonché, in via incidentale, (OMISSIS), con cinque motivi.

MOTIVI DELLA DECISIONE

2 – Con il primo motivo del ricorso principale, denunciandosi violazione della Legge n. 184 del 1983, articoli 1 e 8, si afferma che erroneamente sarebbe stato dichiarato lo stato di abbandono del minore, non ricorrendone i presupposti.

2.1 – Con la seconda censura si deduce la violazione della citata Legge n. 184 del 1983, articoli 12 e 15, non avendo la corte correttamente valutato il significativo rapporto affettivo esistente fra il piccolo (OMISSIS) e gli altri membri della famiglia, e, in particolare, i nonni paterni.

2.2 – Con il terzo mezzo si denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, quale la richiesta di affidamento ai nonni paterni fatta in corso di causa dai genitori del minore.

3 – Con il primo motivo del ricorso incidentale, denunciandosi violazione della Legge n. 184 del 1983, si sostiene che la dichiarazione dello stato di adottabilità del minore non avrebbe potuto essere effettuata come conseguenza dei problemi personali dei genitori e dei parenti prossimi, in particolare i nonni paterni.

3.1 – Con la seconda censura si deduce la violazione della citata Legge n. 184 del 1983, articolo 8, in relazione all’omessa considerazione dell’evoluzione positiva della madre, anche in ordine al rapporto con i propri suoceri.

3.3 – Con il terzo motivo la medesima violazione, nonché il connesso profilo motivazionale, viene prospettata in relazione alla dedotta attenuazione del conflitto fra l’ (OMISSIS) e i nonni paterni del minore.

3.4 – Con in quarto mezzo si denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, vale a dire gli sviluppi della vicenda consistenti nella ripresa della coabitazione dell’ (OMISSIS) con i suoceri e il tentativo della stessa di trovare lavoro.

3.5 – Con l’ultimo motivo si denuncia la violazione della Legge n. 184 del 1983, articolo 15, per non essersi adeguatamente valutata la disponibilità dei nonni paterni di prendersi cura del nipote.

4 – I motivi del ricorso principale ed incidentale, che vanno esaminati congiuntamente in quanto intimamente correlati, sono infondati.

4.1 – Le questioni che i ricorsi in esame pongono tengono prevalentemente alla dichiarazione dello stato di adottabilità del predetto minore, in presenza della dichiarata disponibilità dei nonni paterni ad accoglierlo nella propria famiglia e ad accudirlo. Ed invero gia’ con l’atto di appello i genitori chiesero che il piccolo (OMISSIS) fosse affidato ai nonni paterni, cosi’ evidenziando, a giudizio della corte di appello, “la consapevolezza delle proprie difficoltà e carenze”.

4.2 – Vale bene altresì premettere che, in via generale, le valutazioni in merito all’idoneità dei familiari circa la cura del minore implicano apprezzamenti di fatto, riservati al giudice del merito, non censurabili in sede di legittimità se non per vizi motivazionali, nella specie neppure deducibili sotto il profilo dell’insufficienza e della contraddittorietà – essendo applicabile l’articolo 360, comma 1, n. 5, come modificato dal Decreto Legge n. 83 del 2012, convertito dalla Legge n. 134 del 2012 – ovvero ove la valutazione risulti conforme al dettato normativo, come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., 11 ottobre 2006, n. 21817; Cass., 7 febbraio 2002, n. 1674; Cass., 4 maggio 2000, n. 5580).

4.3 – – Sotto il profilo da ultimo richiamato deve constatarsi che nella sentenza impugnata si pone in evidenza la valutazione negativa formulata nei confronti dei nonni dal consulente tecnico d’ufficio, e la forte conflittualità fra gli stessi e la madre del bambino, “non risolta nonostante le affermazioni in senso contrario”.

Quanto al primo aspetto deve osservarsi che la decisione impugnata si fonda essenzialmente sulla formulazione di un giudizio di totale incapacità dei nonni paterni di rendersi conto, anche per limiti culturali, dei bisogni e delle esigenze del bambino, dell’incapacità di relazionarsi con lui e di comprendere il proprio ruolo. Il convincimento sulla persistenza della situazione conflittuale fra suoceri e nuora, espresso con motivazione adeguata e non sindacabile, per la ragione sopra indicata, in questa sede, da un lato comporta poi il superamento del rilievo circa l’omessa considerazione dell’evoluzione della situazione, dall’altro rappresenta uno stato di abbandono correlato all’impossibilita’ di offrire, indipendentemente dalle buone intenzioni, un ambiente sereno necessario per un equilibrato sviluppo fisico e psichico del minore.

4.4 – L’aspetto inerente al recupero dei rapporti fra l’ (OMISSIS) e i suoceri (per altro assorbito dalla loro rilevata incapacità di prendersi cura del nipote), viene affrontato nei ricorsi in termini riduttivi, avendo la Corte d’appello sottolineato come l’asprezza dei contrasti non potesse risolversi in tempi brevi.

In proposito deve rilevarsi che la Legge n. 184 del 1983, all’articolo 1, afferma il diritto del minore a vivere e crescere nella propria famiglia, ma solo fino a quando ciò non comporti un’incidenza grave ed irreversibile sul suo sviluppo psicofisico, e l’articolo 8 della stessa legge definisce la situazione di abbandono come mancanza di assistenza materiale e morale. In altri termini, il diritto a vivere nella propria famiglia di origine incontra un limite, nello stesso interesse del minore, se si accerta la ricorrenza di una situazione di abbandono che legittimi la dichiarazione di adottabilità qualora, a prescindere dagli intendimenti dei genitori o dei parenti, la vita da loro offerta al minore stesso sia inadeguata al suo normale sviluppo psico – fisico, cosicché la rescissione del legame familiare e’ l’unico strumento che possa evitargli un piu’ grave pregiudizio ed assicurargli assistenza e stabilita’ affettiva.

5 – Emerge abbastanza di frequente, come nel presente caso, la necessita’ di contemperare il principio secondo cui il minore ha diritto di rimanere nella propria famiglia di origine, con conseguente ricorso allo stato di adottabilità come soluzione estrema, quando ogni altro rimedio appare ormai inadeguato, con l’esigenza dell’acquisto o di un recupero della capacita’ genitoriale in tempi compatibili con l’esigenza del minore di uno stabile contesto familiare (Cass., 14 giugno 2012, n. 9769; Cass. 26 gennaio 2011, n. 1839).

In tale quadro, e la questione costituisce uno degli aspetti fondanti dei ricorsi in esame, deve ribadirsi l’irrilevanza delle mere espressioni di volontà da parte della madre e degli altri stretti congiunti, ove prive di qualsiasi concreta prospettiva e quindi non idonee al superamento dello stato di abbandono (Cass. 17 luglio 2008 n. 16795).

6 – In definitiva i ricorsi vanno rigettati, ricorrendo giusti motivi, attesa la delicatezza dei temi trattati, per la compensazione delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte respinge i ricorsi e compensa le spese processuali.

Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalita’ e gli altri dati significativi.




Aggiungere al cognome della madre quello del padre, si può

Con questa interessante pronuncia, il giudice del merito, da un lato, esclude un qualsiasi pregiudizio dall’aggiunta del cognome paterno ad un minore (stante l’assenza di una cattiva reputazione del padre e l’esistenza, anche in fatto, di una relazione interpersonale tra padre e figlio). Inoltre il minore non è ancora in una fase adolescenziale o preadolescenziale e non ha ancora acquisito una definitiva e formata identità tale da sconsigliare l’aggiunta del patronimico.

Suprema Corte di Cassazione sezione I

sentenza 10 dicembre 2014, n. 26062

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente

Dott. BENINI Stefano – Consigliere

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS),

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – Con il decreto indicato in epigrafe la Corte di appello di Bari ha rigettato il reclamo proposto da (OMISSIS) e (OMISSIS) avverso il decreto del Tribunale per i Minorenni di Bari in data 10 gennaio 2013 con il quale era stato disposto che al loro figlio (OMISSIS), nato il (OMISSIS), riconosciuto dal padre nel luglio dell’anno (OMISSIS), fosse attribuito, in aggiunta, il cognome paterno.

1.1 – A giudizio della Corte territoriale, secondo la novellata disposizione contenuta nell’articolo 262 c.c., la richiesta delle parti aveva natura eccezionale, in quanto solo allorché l’aggiunta o la sostituzione del cognome paterno arrechi al minore un concreto e comprovato pregiudizio, il giudice può escluderla.

Nel caso di specie non sarebbero emerse controindicazioni all’assunzione del cognome paterno, dovendosi anzi ritenere che da tale soluzione il minore avrebbe dovuto trarre vantaggio, considerato anche il valore, dal punto di vista sociale, della figura paterna.

1.2 – Per la cassazione di tale provvedimento i signori (OMISSIS) e (OMISSIS) hanno proposto ricorso, affidato a tre motivi, illustrati da memoria. La parte intimata non svolge attività difensiva.

MOTIVI DELLA DECISIONE

2 – Con il primo motivo, denunciandosi violazione dell’articolo 262 cod. civ., ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, si sostiene che con la decisione in esame si sarebbe, da un lato, affermata una prevalenza del patronimico che non trova riscontro nel quadro normativo vigente e, dall’altro, non si sarebbe tenuto conto del diritto del minore a conservare il matronimico, ormai assurto a segno distintivo dell’identità personale.

2.1 – Con il secondo mezzo la violazione della norma sopra indicata, nonché dell’articolo 155 cod. civ. viene prospettata sotto il profilo dell’erroneità dell’attribuzione al patronimico di un favor che non troverebbe riscontro ne’ nella normativa di riferimento, ne’ nella prevalente giurisprudenza di legittimità.

2.2 – Con la terza censura, denunciandosi violazione e falsa applicazione dell’articolo 262 cod. civ., commi 2 e 3, in relazione agli articoli 2 e 22 Cost., si ribadisce che l’interpretazione compiuta dalla Cote di appello, sostanzialmente incentrata sulla prevalenza del patronimico, contrasterebbe non solo con gli impegni assunti dal nostro Paese in sede sovranazionale, ma accorderebbe priorita’ a una visione dell’attribuzione del cognome in funzione del collegamento con il nucleo familiare, in luogo del necessario riferimento all’esigenza di preservare l’identita’ personale, anche in funzione dell’eta’ del minore, il quale, per altro, cosi’ come entrambi i genitori, si era espresso per la conservazione del solo matronimico.

3- Il ricorso è infondato.

Al di la’ di alcuni profili di natura motivazionale, che debbono correggersi ai sensi dell’articolo 384 cod. proc. civ., e che possono individuarsi nell’erroneo riferimento alla necessita’, e non alla facoltà, di attribuire, anche in aggiunta, il cognome del genitore che effettua il secondo riconoscimento ed a qualsiasi richiamo a discipline diverse da quella prevista dall’articolo 262 cod. civ., la decisione impugnata deve ritenersi sostanzialmente corretta ed esente da vizi rilevabili in questa sede.

4 – Questa Corte, invero, ha affermato che poiché i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione esclusiva del suo interesse, che e’ essenzialmente quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, e poiché l’articolo 262 cod. civ. disciplina autonomamente e compiutamente la materia, la scelta del giudice non può essere condizionata ne’ dal favor per il patronimico, ne’ dall’esigenza di equiparare almeno tendenzialmente il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate dal citato articolo, che presiedono all’attribuzione del cognome al figlio legittimo o legittimato (del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 33), delle quali, peraltro, sono stati già evidenziati profili di non aderenza al dettato costituzionale ed alle norme sovranazionali (cfr. fluida ultimo, Corte Cost. 2006 n. 61; Cass., ord., 2008 23934).

5 – Tanto premesso, deve rilevarsi che la questione dell’attribuzione del cognome nell’ipotesi del secondo riconoscimento ad opera del padre non ha subito, nell’evoluzione del quadro normativo, pure invocata dai ricorrenti, una sostanziale modifica, in quanto con il Decreto Legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 e’ stato previsto, in conformità a una linea interpretativa già proposta in relazione alla precedente formulazione della norma, che il figlio “può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre”.

Non e’ chi non veda come la possibilità di anteporre il cognome del genitore che effettua il secondo riconoscimento, che non rileva nel presente giudizio, essendosi nella specie disposto che il cognome del padre fosse aggiunto a quello della madre, costituisca l’espressione dell’ampliamento delle valutazioni e delle scelte che, nella delicata materia in questione, debbono essere adottate nell’esclusivo interesse del minore.

6 – In linea generale, la tendenziale abolizione del solo patronimico, da sostituirsi, secondo proposte che trovano riferimento in vari ordinamenti e che – de iure condendo – stanno affermandosi anche nel nostro, si colloca in un ambito culturale e giuridico del tutto differente dal denunciato “favor” per il solo patronimico, che costituisce il dato fondante, ma non pertinente nella specie, delle doglianze dei ricorrenti.

Ed invero, premesso che la pur invocata pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in data 7 gennaio 2014 non attiene alla fattispecie in esame, la questione, nei termini astratti proposti nel ricorso, può trovare adeguata risposta nella giurisprudenza di questa Corte, laddove si e’ affermato che il diritto al nome costituisce uno dei diritti fondamentali della persona, avente copertura costituzionale assoluta, quale strumento identificativo di ogni individuo. E’ stato poi precisato che la ratio della norma non va individuata nell’esigenza di rendere la posizione del figlio naturale quanto più simile possibile a quella del figlio legittimo, ma in quella di garantire l’interesse del figlio a conservare il cognome originario se questo sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale in una determinata comunità. L’organo giurisdizionale deve pertanto aver riguardo al modo più conveniente di individuare il minore in relazione all’ambiente in cui e’ cresciuto sino al momento del riconoscimento da parte del padre, ed e’ chiamato ad emettere, prescindendo da qualsiasi meccanismo di automatica attribuzione del cognome dell’uno o dell’altro genitore, un provvedimento contrassegnato da ampio margine di discrezionalità e frutto di libero e prudente apprezzamento, nell’ambito del quale assume rilievo centrale non tanto l’interesse dei genitori, quanto quello del minore ad essere identificato nel contesto delle relazioni sociali in cui si trova inserito. Ne consegue che, oltre che nei casi in cui ne possa derivare un diretto pregiudizio al minore in ragione della cattiva reputazione del padre, l’assunzione del patronimico con esclusione del cognome materno non può essere disposta quando l’esclusione di detto cognome, ormai naturalmente associato al minore nel contesto sociale in cui egli si trova a vivere, si risolva in una ingiusta privazione di un elemento distintivo della sua personalità (Cass., 1 agosto 2007, n. 16989; Cass., 26 maggio 2006, n. 12641).

Si e’ quindi affermato che legittimamente viene disposta l’attribuzione al minore, in aggiunta al cognome della madre, di quello del padre, allorché il giudice del merito, da un lato, escluda la configurabilità di un qualsiasi pregiudizio derivante da siffatta modificazione accrescitiva del cognome (stante l’assenza di una cattiva reputazione del padre e l’esistenza, anche in fatto, di una relazione interpersonale tra padre e figlio), e, dall’altro lato, consideri che, non versando ancora nella fase adolescenziale o preadolescenziale, il minore, tuttora bambino, non abbia ancora acquisito con il matronimico, nella trama dei suoi rapporti personali e sociali, una definitiva e formata identità, in ipotesi suscettibile di sconsigliare l’aggiunta del patronimico” (Cass., 5 febbraio 2008, n. 2751).

7 – Chiarito che, in linea di principio, la statuizione impugnata non si colloca su un versante difforme dagli orientamenti di questa Corte, deve ribadirsi, per altro verso, che l’ampia discrezionalità attribuita, nei termini sopra indicati, al giudice del merito, comporta che tale decisione – da maturare nell’esclusivo interesse del minore, tenendo conto della natura inviolabile del diritto al cognome, tutelato ai sensi dell’articolo 2 Cost. – e’ incensurabile in cassazione, se adeguatamente motivata (Cass., 17 luglio 2007, n. 15953).

Sotto tale profilo deve rilevarsi che non risulta denunciato alcun vizio motivazionale, per altro, avuto riguardo alla modifica dell’articolo 360 c.p.c., n. 5 applicabile “ratione temporis”, virtualmente soggetto alle limitazioni introdotte dalla nuova disciplina.

8 – Non va adottata alcuna statuizione in merito al regolamento delle spese processuali, non avendo la parte intimata svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi.